ll fantasma autoritario
Gli stivali di Renzi hanno i tacchi a spillo

Il ministro Boschi ha perfettamente ragione quando sostiene che il disegno di riforma costituzionale in discussione al Senato non ha nulla di autoritario. Soltanto i professoroni e gli intellettuali da salotto che hanno già storpiato una Costituzione, possono muovere un’accusa tanto ridicola alle proposte del governo. Perché si impianti un modello autoritario in Repubblica, occorre avere almeno un piano. Il governo non ne ha nessuno. La misura della riforma costituzionale è data da una battuta del sindaco di Torino, Piero Fassino, il quale si è lamentato che solo 21 sindaci eletti nel nuovo Senato sarebbero pochi. In effetti, se un sindaco di Firenze è diventato presidente del Consiglio, i sindaci di Milano, di Venezia, di Genova, di Napoli, di Roma, di Palermo e di tutti i capoluoghi di provincia di Italia devono diventare almeno senatori. Il nuovo Senato dovrebbe essere secondo Fassino la Camera dei sindaci, che l’Anci da sola non ha già fatto abbastanza danni al Paese. Poi ci sono i Governatori di Regione ed i consiglieri, tutti insieme appassionatamente con i sindaci delle loro città a difendere i propri interessi locali. Perché quale altra competenza avrebbe un tale Senato se non quella di difendere le autonomie locali da un governo accentratore e che deve tagliare risorse? E la particolarità è che questo Senato, costruito localisticamente, avrebbe una forza superiore a quella della Camera che vota la fiducia al governo, perché politicamente indipendente e con una rappresentanza popolare che la Camera si potrà scordare. Sindaci e governatori di Regione sono infatti eletti direttamente dal popolo, poi dalle loro assemblee eletti al Senato, insomma delle autentiche potenze, mentre i deputati della Camera, sono semplici nominati. Quanto conterebbero davvero i nostri anonimi deputati in un sistema che li vede semplice cassa di risonanza dei desiderati del governo? Quando si ribellerebbero al loro premier. Perché il bello di questo disegno di riforma costituzionale che si accompagna ad un modello elettorale fortemente maggioritario, presuppone l’omogeneità degli eletti nello schieramento o nel partito vincente. Un fenomeno che non si è mai ottenuto nè a sinistra, né a destra. I nostri riformatori non si sono accorti che il sistema non è più stabile restringendo la rappresentanza, perché una volta che sei risucchiato in uno stesso partito o in una coalizione. se poi vuoi emergervi, oltre al posto che è sempre a rischio, devi distinguerti. E’ successo a Bossi, poi a Bertinotti, poi a Casini e infine a Fini. Tutte crisi di governo interne alle coalizioni vincenti e poi agli stessi partiti unici. Tanto che la riforma che il centrodestra presentò nel 2006 era la stessa di Renzi di oggi con una sola variante – a parte che non c’era la follia della doppia elezione al Senato – ovvero il rafforzamento dei poteri del premier. In questa riforma non ce n’è traccia e non potrebbe esservi perché Renzi è diventato presidente del Consiglio sgambettando quello che era stato indicato ad inizio legislatura, il povero Lettast. Per cui sgambettare il premier all’interno dello stesso partito, secondo consolidata prassi democristiana, sarà sempre previsto. La riforma costituzionale del ministro Boschi non ha niente di autoritario semmai è il volano per lo sfascio delle istituzioni repubblicane. Perché oltre ad un problema di merito, c’è un problema di metodo. Intanto l’idea di fare l’accordo con una forza politica il cui leader è un pregiudicato. Il che significa, o che bisogna riformare la Giustizia, perché si ritiene questo leader vittima di una persecuzione, o che il conflitto con la Giustizia diverrà sistemico con una delle principali forze costituenti del Paese, come è stato già annunziato dal procuratore di Palermo Di Matteo.
Poi vi è la questione della costituzionalità del Parlamento che vara la riforma, visto che la Consulta questo Parlamento lo ha ritienuto eletto sulla base di una legge incostituzionale. Infine, che Forza Italia, Pd e nuovo centrodestra, rappresentano il paese legale, una maggioranza elettorale del 60 70 per cento degli italiani, che è meno della metà del paese reale. E’ possibile ovviamente che Paese legale e paese reale tendano a separarsi nell’evoluzione del processo democratico, il rischio, nella storia è già successo, che il paese reale divenga poi completamente estraneo a quello legale. E sotto questo profilo solo il successo di Grillo dovrebbe rappresentare un sintomo inquietante.

Roma, 22 luglio 2014